Spesso quando guardiamo le foto o i video di un progetto comunitario vediamo solo tante facce sorridenti piene di buona disposizione d’animo.
Chiara Sonzogni lavora sul campo e sa che la realtà è spesso più complessa di quanto quelle foto non dicano.
Nata a Brescia nel 1984 e con studi di architettura a Milano, Chiara fa l’architetta a Porto, in Portogallo, e già da due anni lavora a un progetto comunitario basato sul riutilizzo di spazi abbandonati nel centro storico di Porto, dichiarato Patrimonio Mondiale dell’Umanità dall’Unesco. Non a caso il progetto si chiama Retornáveis, vuoti a rendere.
La passione per la parte più cadente della città portoghese nasce durante un Erasmus fatto alcuni anni fa: «Ricordo che la prima foto che scattai in città fu a un edificio abbandonato». Edifici del genere non mancano nel centro storico di Porto; seguendo un trend comune anche a molte città italiane la popolazione locale si è gradualmente spostata nelle città satelliti lasciando intere parti della zona storica pressoché deserte.
L’idea di Chiara è tanto semplice quanto efficace: perché non ridare vita a questi spazi inutilizzati con una nuova destinazione d’uso? Detto, fatto. Dopo aver mappato quelli più interessanti e aver provato a entrare in contatto coi proprietari, alla fine è riuscita a strappare l’autorizzazione per utilizzarne due. Rimboccatasi le maniche, ha provato a creare un progetto partecipato in cui gli abitanti della zona dicessero la loro e infine diventassero i responsabili degli spazi.
Nel quartiere della Vitória – progetto P(h)ortatil – Chiara aveva a disposizione il primo piano di un edificio crollato, ormai pieno di detriti, rifiuti ed erbacce. Dopo averlo ripulito ha provato a realizzarvi un orto comunitario tascabile. Quest’anno la comunità ha chiesto di adattare lo spazio a una funzione più ludica. Il perimetro dello spazio ha continuato a ospitare pomodori, peperoni e fiori, ma la parte centrale grazie a un tavolo è diventata spazio di convivio. In questi mesi la rovina ha ospitato vari eventi: una cena vegana, un concerto/teatro, uno spettacolo di teatro di strada itinerante, infine si è trasformato in uno spazio di gioco per bambini e anziani.
Nel secondo spazio invece, nella Rua da Trás (progetto Jardim suspenso, giardino sospeso), Chiara aveva a disposizione una sorta di patio all’aperto che si prestava ad essere arredato con divani, sedie e qualche tavolino. Quest’anno l’ex-rovina è stata aperta in ritardo a causa della pericolosità di un edificio confinante, ma ha già ospitato il concerto di un gruppo musicale che usa strumenti realizzati a partire da oggetti riciclati (quale spazio migliore per un concerto del genere), mentre un gruppo di artisti e scultori ha usato il Jardim suspenso come atelier artistico.
In entrambi i progetti l’aiuto e il contributo da parte di volontari è stato spesso prezioso, per esempio il progetto P(h)ortatil di Rua da Vitória è stato arricchito da un murales dell’artista ungherese Eszter Kiskóvacs, mentre nel Jardim suspenso se ne può trovare un altro realizzato dall’artista austriaca Tanja Knaus. La collaborazione del vicinato invece Chiara ha dovuto guadagnarsela. La casa abbandonata di Rua da Vitória rendeva di certo la via più sporca e fatiscente, e al vicinato non sembrava vero che qualcuno ripulisse e portasse via anni di rifiuti ed erbacce. Però da lì a credere nella possibilità di dare nuova vita a quella rovina, di strada ce ne corre. Essere forestiera e lavorare in una realtà piuttosto machista non l’ha aiutata. Ma alla fine la fiducia del quartiere Chiara l’ha ottenuta eccome, a volte anche grazie a strane avventure: «Un giorno Tono, un manovale e tuttofare della via si offre di accompagnarmi in alcuni negozi di ferramenta e giardinaggio per comprare degli attrezzi. La regola era che lui avrebbe trattato i prezzi e io sarei rimasta a guardare, perché “certe cose vanno trattate solo da chi ne capisce qualcosa”.
Entrati in un negozio, il commerciante mi osserva e dice: “Ragazza, sapevo che prima o poi saresti capitata da queste parti. Ho sentito parlare del tuo progetto e ti stavo aspettando”. Tono a questo punto decide di aspettare fuori dalla porta e lasciarmi trattare l’affare da sola. Infatti riesco a comprare gli attrezzi di cui avevo bisogno a buon prezzo. Da quel momento avevo ottenuto il suo rispetto. Non avrei mai sospettato che andare a comprare degli attrezzi si sarebbe trasformato in un test».
Malgrado ciò, a volte la comunità ha partecipato al progetto in modo cauto e discontinuo. I più entusiasti probabilmente sono stati i bambini del quartiere, sono stati loro a proporsi per scrivere le “regole” dello spazio. I bambini inoltre hanno spesso fatto da tramite con gli adulti, convincendoli a partecipare alle varie attività: «È stato evidente nel caso di una cena durante la quale i bambini andavano e venivano con i piattini pieni di cibo da portare ai familiari, che invece si mostravano timidi e restii a usare il nuovo spazio». Ma una delle soddisfazioni maggiori probabilmente Chiara la riceve un giorno quando una bambina le confessa di usare lo spazio come “via di fuga”: «Quando mi sento triste e voglio stare sola vengo qui, così nessuno mi vede e io mi sento subito più felice, in mezzo ai fiori». Chiara si è trovata spesso a mediare tra antipatie, rivalità e conflitti, problemi che in un quartiere problematico come la Vitória sono all’ordine del giorno. Anche l’aprire gli spazi a persone non del quartiere ha generato dei problemi. Ma non sarebbe giusto raccontare la parte più complessa e meno appariscente del lavoro comunitario di Chiara senza soffermarsi anche sui suoi effettivi risultati: «Nonostante tutto credo che il progetto abbia lasciato il segno e abbia dimostrato che é possibile intervenire sull’ambiente urbano in modo consapevole e creativo. Le parole della bambina, l’appoggio ricevuto dalla popolazione, lo sguardo commosso di alcune persone della via nel vedere che quella rovina è diventata un palco per un concerto, sono piccoli successi che mi ripagano degli sforzi. Questi progetti ancora non possono camminare con le proprie gambe e il percorso per raggiungere questo stadio é lento e difficile. Sono convinta comunque che il primo passo sia stato fatto».
Come si sarà già capito, il rapporto di Chiara con l’architettura è per certi versi inusuale, lei stessa ammette di stupirsi ogni volta che alla domanda: «Che lavoro fai?» risponde: «L’architetta». «Sono convinta che l’architettura non sia una disciplina elitaria, chiunque si muove consapevolmente nello spazio, l’osserva, lo ascolta, lo vive e lo capisce, sta facendo architettura. Per me anche ridare vita a uno spazio morto é un gesto architettonico, anche se non implica una costruzione».
Al momento Chiara lavora a un altro intervento nello spazio pubblico, questa volta nella città portoghese di Guimarães, Capitale Europea della Cultura per il 2012. Il progetto si basa sul concetto di orto urbano e sull’effetto che un’azione tanto semplice può avere sulla dinamica della collettività. L’orto comunitario ha già raggiunto un livello di auto-gestione abbastanza notevole, il che la porta a riflettere: «Insomma, io sono sempre la stessa, il progetto è stato mosso dalle stesse ragioni, gli obiettivi pure coincidevano con quello di Porto, forse è davvero il contesto di una città e soprattutto la vita dei suoi abitanti a essere determinante per il successo di progetti di questo tipo».
Speriamo che Chiara continui a cercare la risposta, questa volta in qualche città italiana.
Pubblicazione: 04/12/2012 – Ultimo aggiornamento: 04/12/2012
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