Cari amici di Marraiafura, abbiamo da poco pubblicato un articolo dedicato a Boa Mistura, un collettivo spagnolo di street artist che, con le loro originali e coloratissime opere, offrono uno splendido connubio di arte e impegno sociale, dando vita e colore ai luoghi in cui operano, proponendosi di migliorare la vita delle persone.
Il loro lavoro ci ha particolarmente colpito, così abbiamo deciso di contattarli e proporgli un’intervista esclusiva con noi. Sono stati disponibili e simpatici e ne è venuta fuori una chiacchierata bella ed intensa che ora andiamo a proporvi.
Buona lettura (e buona mescolanza!)
Il nome “Boamistura” già dà l’idea di un felice connubio di idee e teste pensanti. Parlateci un po’ di voi: chi siete e come nasce il vostro collettivo?
Boa Mistura non è altro che un gruppo di cinque amici che si conoscono da sempre, e che nei fine settimana si riunivano nel loro quartiere (Alameda, Madrid) per realizzare graffiti.
Tutto quello che è avvenuto in seguito è arrivato insistendo, lavorando duro e combattendo con le unghie e denti ogni ora di ogni giorno, fino ad oggi, in cui possiamo vivere del nostro hobby. Per quanto riguarda la nostra formazione, ognuno ha studiato quello che voleva, quello che gli piaceva, senza pensare al futuro del gruppo, anche se poi questa scelta si è rivelata un valore aggiunto fondamentale per Boa Mistura. Agli inizi non avremmo mai immaginato fino a che punto saremmo potuti arrivare.
Come scegliete i luoghi e i progetti per il vostro lavoro? I committenti vi contattano o il collettivo sceglie dove intervenire, proponendosi in prima persona?
Il più delle volte sono i luoghi che ci scelgono. Ambasciate, comuni, aziende, ONG, fondazioni, aziende private, ogni progetto è diverso. Quello che più ci piace è agire, realizzare cose. Tutto quello che ci consente di poter fare le cose è il benvenuto.
Di solito ci contattano persone che conoscono il nostro lavoro e che credono possa andare bene e adattarsi ad un determinato luogo. Noi andiamo lì sul posto, lo studiamo, lo viviamo e sviluppiamo un progetto, in situ, che riteniamo meglio si addica a quel luogo.
In tutti i vostri lavori si percepisce una forte valenza sociale, non solo estetica. Quanto è importante questo aspetto per voi al momento di accettare un lavoro e qual è il vostro obiettivo principale come artisti?
Il valore sociale è un elemento in più che aggiungiamo al nostro lavoro, a partire dal nostro soggiorno in Sud Africa nel marzo 2011.
A Woodstock, un quartiere degradato di Città del Capo dove abbiamo vissuto, gli abitanti ci hanno parlato dell’importanza di quello che stavamo facendo lì, e di come il nostro lavoro avrebbe potuto ispirare le generazioni future e spingerle a fare cose positive. “Chi lo sa se il prossimo Mandela non sarà uno di questi ragazzi, e questo vostro lavoro sarà la molla che lo farà agire”.
Queste parole ci hanno invaso la testa, e abbiamo iniziato a capire che il nostro lavoro non solo aveva una responsabilità estetica, ma anche sociale. In quel momento abbiamo iniziato a lavorare con il messaggio, con positività e ispirazione.
È un valore che è diventato praticamente indispensabile, in misura maggiore o minore, in ogni lavoro che facciamo nello spazio pubblico.
Nelle vostre opere fate ampio uso della tecnica dell’anamorfosi. Come avete messo a punto questa tecnica e chi sono stati i vostri principali ispiratori?
L’anamorfosi, nel nostro caso, non è stata altro che una “risposta su misura” per un luogo con caratteristiche particolari.
I nostri progetti sono “site specific”, cioè, sono progettati per uno spazio e luogo specifici nell’universo, un luogo che nessuno può spostare, cosicché ogni progetto è la soluzione migliore che abbiamo trovato per quella particolare posizione.
La prima volta che abbiamo lavorato con l’anamorfismo è stato in Brasile. Quando siamo arrivati Vila Brasilândia, una favela nella quale abbiamo vissuto per due settimane, abbiamo trovato questi vicoli tortuosi e stretti (Becos e Vielas), che erano le vene che collegavano le principali arterie della Colonia, attraverso le quali si articolava la vita della comunità. Pertanto, ci è sembrato il posto nel quale aveva più senso apportare luce (sono spazi residuali, risultato di processi di auto-costruzione).
Lavorare nelle pareti non aveva senso, perché si trattava di passaggi e vicoli troppo stretti e la trasformazione non sarebbe stata così forte. Così abbiamo deciso di appiattire lo spazio tramite l’anamorfismo, scrivendo queste grandi parole come una coperta di colore che riunisse il più grande nucleo abitativo possibile, anche per rafforzare così il senso di comunità, l’uguaglianza.
Qual è lo scopo che si prefigge un artista che come voi interagisce con lo spazio e i suoi abitanti?
Quello che cerchiamo di ottenere è di ispirare, toccare le persone, farle pensare, sorridere, sorprenderle, agitarle.
La forza del lavoro in strada è che raggiunge tutti quanti, senza segmentazione, perciò facciamo in modo che il messaggio che lanciamo sia positivo. Ci piace pensare che ciò che facciamo possa servire per cambiare l’umore della gente e lo stato d’animo delle persone, invertendo l’atmosfera negativa che prevale nella società. La connessione tra il nostro lavoro e le persone alle quali è diretto è la parte più importante per noi.
Quando, per esempio, si lavora in una comunità, è quel legame il motore di tutto. Alla fine, sono progetti realizzati con le persone e per le persone, il fattore umano pesa molto di più che quello artistico.
Quale alchimia si crea tra voi, l’opera finale e coloro che in seguito la dovranno abitare e vivere?
Ci trasferiamo sempre nel luogo in cui andremo a lavorare. Abbiamo vissuto a Vila Brasilândia, presso la famiglia Reis Goncalves, diventando cinque figli per loro. Nella parrocchia di Fatima Chorrillo, uno dei quartieri più pericolosi a Panama, a casa di Nora e Merzak nel cuore della casbah algerina, e da tutti questi posti siamo andati via con le lacrime agli occhi. Ciò che ti resta dentro è molto più di quello che lasci. È un’alchimia umana quella che si crea, e il lavoro che rimane lì non è altro che il ricordo dell’esperienza vissuta insieme, mentre si realizzava quel lavoro.
L’uso dei colori e della poesia come cura per l’anima e l’uso della bellezza con fini sociali risalta in tutto ciò che fate. Che opinione avete voi a riguardo? La bellezza può “curare” i luoghi e rendere migliore la vita di chi li abita?
Assolutamente sì. È molto bello quello che dici 🙂
Un conoscente del quartiere in cui siamo cresciuti una volta ci ha detto: “I meccanici riparano le auto, i medici curano, e gli artisti toccano l’anima”.
È qualcosa che ci si addice da sempre. Facciamo in modo che il nostro lavoro contenga sempre un messaggio positivo, ispiratore. È un lavoro che sta nella strada, un luogo che è di tutti e di nessuno allo stesso tempo. Il nostro è un lavoro necessario come molti altri. Alla fine dei conti, la vita è una serie di ingranaggi in cui, se uno fallisce, tutto il resto non funziona al 100%.
Quali sono i prossimi progetti di Boamistura?
Stiamo sempre saltando da un posto all’altro, non riusciamo a stare fermi. Tra i vari che si possono annoverare, il nostro progetto più immediato è a Caracas, dove interverremo su un edificio gigante. Poi abbiamo un Workshop in Galizia, e molte altre cose delle quali non mi piace tanto parlare fino a che non si siano concretizzate 🙂
Insomma, stiamo sempre facendo cose. Sia quelle che ci lasciano fare, sia quelle che non ci lasciano fare 😛
Quando verrete a colorare un po’ Cagliari o qualche altro luogo della Sardegna? 🙂
Non appena ne avremo la possibilità! Siamo innamorati dell’Italia, e per noi sarebbe un piacere lasciare il nostro segno sulla vostra bellissima isola.
Leggi l’articolo “Boa Mistura. Dare colore alle periferie degradate e coinvolgere le comunità è una buona mescolanza“
Pubblicazione: 29/10/2014 – Ultimo aggiornamento: 29/10/2014
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